La disperazione non è mai stata per noi una giustificazione.
Hanno distrutto il nostro santuario di Gerusalemme e ci hanno portato in catene nelle strade di Roma. Ci hanno buttato nelle arene per fare divertire gli spettatori mentre i leoni ci sbranavano vivi. Ci hanno bruciato negli autodafé, chiamati marrani, maiali, ci hanno proibito di accendere le candele al venerdì sera e di pregare nella lingua dei nostri padri. Ci hanno cacciato dalla Spagna, costringendoci a cercare nuovi paesi che ci accogliessero. Ci hanno massacrati nei pogrom, devastato le nostre sinagoghe, arruolato i nostri figli in eserciti da cui non sarebbero mai più ritornati. Ci hanno tolto il diritto di lavorare, di possedere, di votare, di parlare. Ci hanno spogliato della dignità di cui ogni essere umano dovrebbe godere per diritto alla nascita, strappandoci i denti d’oro dalla bocca e marchiandoci a fuoco come bestie al macello. Ci hanno urlato per secoli ‘tornatevene nella vostra terra’ e ora che ci siamo tornati ci urlano ‘andatevene’.
Eppure noi ebrei siamo parte indissolubile del tessuto della storia del mondo.
La presenza ebraica è il comune denominatore per la maggior parte dei paesi sulla cartina geografica.
In ogni posto della terra dove siamo approdati abbiamo generato poeti, matematici, fisici, scrittori, politici, scienziati, medici, inventori.
Anche quando ci chiudevano nei ghetti, abbiamo continuato a produrre. Non abbiamo smesso di scrivere, di riflettere, di discutere e di cercare di infondere il bene .
Non abbiamo messo la nostra vita in standby nemmeno per un istante.
Non ci siamo coperti la testa di cenere per migliaia di anni.
Ci hanno cacciato, derubato, privato, spogliato, ucciso, massacrato.
Abbiamo caricato in spalla il nostro destino e nel cuore l’eredità spirituale dei nostri avi e siamo andati alla ricerca di un nuovo posto in cui ricominciare a respirare.
Non c’è tempo né voglia di piangersi addosso per chi cresce sapendo che ogni istante in questo mondo è la ricchezza più grande che si possiede, per coloro a cui viene insegnato che la vita è un regalo da sfruttare in ogni istante che ci viene regalato.
E non c’è nemmeno spazio per il rancore.
Siamo tornati in Germania, in Italia, in Francia senza più genitori, fratelli, mogli e figli. Ci siamo messi sotto alle finestre a guardare altri vivere nelle case che prima della guerra ci appartenevano.
Ci siamo alzati le maniche, scoprendo numeri impressi a fuoco nel braccio e nell’anima e abbiamo ricominciato da capo.
I paesi invasi dalle ondate migratorie dovrebbero studiarsi la storia ebraica e il nostro modello di integrazione.
Ovunque siamo andati, abbiamo fatto attenzione a non scivolare sulle nostre lacrime.
Non abbiamo aspettato la pietà, la compassione dei paesi che ci accoglievano. Abbiamo detto grazie e, dal primo istante, cercato di integrarci nel tessuto sociale del luogo che ci ospitava donando i nostri talenti e il nostro potenziale per lo sviluppo e l’avanzamento. Per il futuro nostro e degli altri.
C’è chi usa la disperazione per giustificare i massacri di innocenti.
E chi cerca di accantonare la disperazione nel cassetto dei ricordi e risalire la china concentrandosi sulle nuove opportunità offerte.
Gentile Hillary Clinton, politici europei e italiani che cercate una ragione, un motivo dietro alla trasformazione di questi esseri umani in schegge mortali.
Anche se scopriste una loro situazione personale tragica, seppure in molti casi queste persone abbiano in un tenore di vita allineato con la società in cui vivono, anche se così fosse, nulla, nulla, può giustificare la violenza cieca contro altri esseri umani. Nulla, nulla, può dare il diritto a un individuo di privare un altro del suo domani.
E andare alla ricerca di giustificazioni significa preparare un terreno fertile per i prossimi atti.
Mai un popolo è stato trattato peggio dalla storia come quello ebraico.
Eppure, ovunque ci abbia portato il vento dell’odio, ci siamo integrati, abbiamo imparato la lingua del posto, studiato a memoria Foscolo, Quasimodo e Leopardi.
Abbiamo ideato le lasagne al ragù senza latte, sappiamo che sta a noi doverci inserire nel luogo dove viviamo. Non abbiamo mai domandato che fosse il paese che ci accoglieva ad adeguarsi alle nostre usanze.
Dina demalchuta dina, la legge del posto deve diventare la tua legge, dice il Talmud.
Ai leader che vanno alla ricerca di giustificazioni per atti assassini e criminali, forse sarebbe il caso di offrire qualche lezione di storia ebraica.
L’integrazione vera, anche dei più disperati della storia del mondo, è possibile e può diventare realtà. Ma dipende innanzitutto dai valori che trasmettono la religione e la famiglia dei nuovi arrivati. E dalla loro volontà di entrare a far parte in maniera positiva e costruttiva della società che li accoglie.
Gheula Canarutto Nemni