C’è chi commemora Yom Hashoà tutto l’anno.
Riportando alla mente quel mondo perduto, quelle vite strappate, i milioni di bambini che avrebbero potuto nascere. E che invece non hanno mai visto la luce perché i loro padri e le loro madri erano loro stessi bambini, adolescenti, quando sono stati assassinati nelle camere a gas, uccisi a sangue freddo per le strade delle città in cui erano nati e cresciuti.
Ci sono persone che si sono prefisse un obiettivo. Cercare di ridare più vita possibile a ciò che la più feroce delle macchine di morte ha interrotto.
Ogni mattina sentono risuonare dentro di sè le sirene che commemorano i milioni di ebrei strappati alla vita.
Sono individui che non dimenticano e sanno e trasmettono ai proprio figli che in cielo ci sono sei milioni di anime che aspettano che qualcuno porti a termine il loro viaggio incompiuto in terra.
Si svegliano e ringraziano D-o dell’anima che ha restituito, come avrebbe fatto Anshel, il bambino di otto anni che viveva a Varsavia, se non fosse stato strappato dal proprio letto prima di potere pronunciare le parole che gli avevano insegnato.
Pregano e si legano al braccio i filatteri come stava facendo Mendel quando gli spararono in volto perché le sue preghiere avevano un suono troppo diverso.
Corrono per arrivare in tempo alla preghiera in sinagoga come stava facendo il signor Cohen quando un nazista gli si avvicinò, gli tagliò la barba e lo umiliò per due ore in mezzo alla strada, per poi finirlo tra le risate dei passanti a bastonate in testa.
Si avvicinano al Mikveh, al bagno rituale e finiscono di compiere il percorso di Anne che aveva sfidato il coprifuoco, le guardie, le armi pronte a sparare, per andare ad immergersi nel fiume che scorreva al di là della mura del ghetto, perché solo così avrebbe potuto provare a dare continuità al proprio popolo.
A quelle acque non ci arrivò mai, perché un soldato sentì il rumore dei suoi passi felpati, forse era solo il battito accelerato del suo cuore e la finì mentre era arrampicata sulle mura, sospesa tra il cielo e la terra.
Anche quest’anno, il 27 di Nissan, risuonano in Israele le sirene per Yom Hashoa, il giorno che commemora i sei milioni di ebrei morti per mano nazista.
Milioni di persone si fermeranno per un minuto di silenzio per le strade, sui marciapiedi, dentro ai negozi, al diciottesimo piano di un palazzo di Tel Aviv.
Ma quella sarà solo una fermata intermedia.
Perché il ricordo da solo non basta per ridare vita.
Sono i piccoli gesti ripetitivi e continuativi, le miriadi di pensieri, parole ed azioni che i nostri fratelli erano nel mezzo di compiere quando una mano assassina li ha interrotti, sono i piccoli passi ebraici quotidiani a riportare in vita le loro anime.
‘Come fa una persona a commemorare sei milioni di morti? Quante candele una persona dovrebbe accendere? Quante preghiere una persona dovrebbe recitare? Sappiamo come ricordare le vittime, la loro solitudine, la loro disperazione? Se ne sono andati via dal mondo senza lasciare una traccia. Siamo noi la loro traccia’ (Elie Wiesel)
Gheula Canarutto Nemni
Siamo noi la loro traccia. E nessuno di noi si sottrarrà al proprio compito.