Cari docenti, i nostri ragazzi hanno bisogno di voi
Gentile professoressa, caro maestro, vi scrivo dopo avere avuto una serie di colloqui con dei vostri colleghi.
Colleghi che mi hanno fatto notare come mio figlio non stia andando bene a scuola. Il suo rendimento scolastico è sceso, mi hanno detto. Domanda spesso di uscire dalla classe, è poco concentrato.
Io li ho guardati (su zoom ovviamente) come se fossero dei marziani appena arrivati in terra.
‘Vi aspettavate qualcosa di diverso?’ ho domandato.
‘Suo figlio ha delle potenzialità che non mette a frutto’, mi hanno risposto.
Avrei accettato questo discorso in qualsiasi altro momento prima dell’arrivo del virus malefico.
Avrei accettato qualsiasi critica nei confronti dei miei figli, prima del febbraio 2020.
Ma siamo ad aprile 2021. E i nostri figli non sono praticamente andati a scuola per un anno.
Hanno sostituito i compagni in carne ed ossa con delle immagini con sfondi buffi per mesi e mesi.
Hanno trasformato la propria stanza in una sala riprese, hanno aspettato con pazienza che venissero riportati i loro libri dalla scuola chiusa senza preavviso.
Hanno adottato un nuovo stile di studio, un modo di socializzare totalmente diverso.
Hanno perso l’abitudine di giocare a pallone, adattandosi a palline di gomma piuma con le quali hanno giocato per mesi nei corridoi di casa.
Nei primi mesi di lockdown hanno raccolto da casa tutti i fogli, anche quelli già scritti su un lato, perché le risme di carta sarebbero state consegnate almeno tre settimane dopo.
Hanno affrontato la fine delle cartucce della stampante, l’impossibilità di sostituirle.
Hanno visto la parola morte entrare a forza nelle loro piccole vite, la scomparsa di persone che senza avvertimento sono sparite dalle loro giornate.
Hanno visto i genitori in panico, il padre andare avanti e indietro dal pronto soccorso.
Hanno imparato cosa è il saturimetro, hanno associato al numero 95 una soglia pericolosa per la salute.
Sono rimasti per mesi e mesi intrappolati tra le mura di casa, affacciati a un balcone, a vedere i cani a passeggio, imparandone i nomi e invidiandoli per le loro uscite.
Hanno imparato troppo giovani che nulla di ciò che si possiede è scontato, che non esistono certezze assolute, che l’infanzia non ti dà diritto a essere meno esposto alla triste realtà.
Cose che la maggior parte di noi adulti ha imparato lentamente, lungo la strada della vita, a dosi omeopatiche.
I nostri giovani hanno vissuto una guerra, dove il nemico si nascondeva nei tasti dell’ascensore, sulle maniglie delle porte, dentro ai polmoni dei loro cari.
Cari prof, davanti a voi nelle aule, sotto alle mascherine che danno fastidio e ti chiudono il campo visivo e diminuiscono l’ossigeno che inspiri, non ci sono gli stessi alunni a cui eravate abituati.
Non ci sono studenti con le normali differenze di apprendimento.
Ci sono esseri umani che hanno vissuto un periodo traumatico e, nonostante tutto, riescono ancora a scherzare, a ridere, a fare finta di niente.
Ci sono giovani che forse hanno iniziato a temere un po’ di uscire di casa, che si sono abituati così tanto alla dad, da avere attacchi di panico per una verifica in classe.
Ci sono individui il cui sogno più grande è togliersi la mascherina, fare una partita di calcio buttandosi addosso al compagno, potere riportare indietro la macchina del tempo e venire definiti ‘scansafatiche’ o ‘poco impegnati’ per via della poca voglia di studiare e della grande voglia di divertirsi e non a causa di una epidemia mondiale che ha rubato loro preziosi mesi d’adolescenza e d’infanzia.
Guardateli con occhi diversi questi giovani. In questo momento la loro priorità non è essere riempiti a oltranza con concetti e formule per cercare di recuperare il tempo perduto. Hanno bisogno di amore, di pazienza, di adulti che infondano loro fiducia in se stessi e nel mondo in cui vivono.
Hanno bisogno di maestri di vita e non di insegnanti di pura didattica.
Cordiali saluti
Gheula Canarutto Nemni